martedì 3 aprile 2018

Lettera aperta a Mario Calabresi

Perché ti scrivo? Perché penso che "la Repubblica", come il Pd debba interrogarsi anche sulle sue responsabilità almeno per gli ultimi venticinque anni della politica e della società civile italiana.

scritto da ROBERTO DI GIOVAN PAOLO 







































































Caro Mario,
ti scrivo oggi dopo aver letto il tuo editoriale di sabato 31 marzo di cui sottoscrivo ogni parola. Scrivere in dissenso è troppo facile e non sempre ispira la riflessione. Invece io, che leggo la Repubblica dal primo giorno di uscita mentre prendevo il bus che mi portava a scuola, spesso mi trovo d’accordo con te ma meno con le pagine del tuo-mio giornale e volevo scriverti ormai da un altro tuo editoriale, quello del 23 febbraio sul “vecchio film che va fermato”.
Perché ti scrivo? Perché penso che la Repubblica, come il Pd debba interrogarsi anche sulle sue responsabilità almeno per gli ultimi venticinque anni della politica e della società civile italiana. E poiché io sono affezionato ad entrambi, rispettosamente, mi sento di doverne far parte.
Vado subito al punto. Il tuo editoriale esprime perfettamente il senso di uno degli insegnamenti che ho avuto nella mia vita politica di militante della sinistra Dc, di cattolico democratico (e poi nel Pd): all’opposizione non ci vai, ti ci mandano. Significa che in politica vinci e perdi. Quando vinci non devi essere tracotante ed insensibile alle ragioni della minoranza, quando perdi non devi essere rancoroso ma uscire dall’angolo, tornare in gioco, battagliare sull’agenda politica. E convincere gli elettori della bontà delle tue idee.
I voti si contano non si pesano.
Le conseguenze sono una linea politica. Ma di questo parlerò se del caso nel mio partito (se ancora mio, se contendibile, se democratico…).
Parlando del mio giornale però a pagina 8 e 9 della stessa edizione ci sono due articoli sui guai giudiziari di Berlusconi e quelli possibili di Salvini.
Informazione. E informazione dovuta, per carità, e grazie di farla.
Tuttavia, negli anni, l’informazione su Berlusconi e altri ha solleticato la via giudiziaria alla soluzione politica.
Non ha funzionato. Come non ha funzionato la spiegazione di una presunta superiorità culturale ed etica della sinistra rispetto al resto del Paese che sono partiti di italiani e italiani liberi dai partiti esattamente come noi anche se noi abbiamo una idea diversa dell’Italia (interessante tra gli altri il libro di Daverio sugli italiani ndr)
Ricordo sempre Scalfari, bello da leggere e da ascoltare e però sempre con un suo tarlo che, più o meno implicito, ci pone sempre davanti: quello dell’amarezza per una Italia che invece di affidarsi a Parri (un padre della patria di tutto rispetto) ha invece votato i corpaccioni della Dc e del Pci.
Essendo refrattaria la Dc (e con tanti lati oscuri che come sai ho combattuto con tanti altri in prima persona) la Repubblica si è dedicata, dopo Berlinguer a influenzare il Pci e i suoi dirigenti aspirando ad essere la sua “direzione strategica”…
La Storia Pds, Ds, e poi nel Pd ha portato gruppi dirigenti sempre meno formati alla politica e senza più Frattocchie (o Camilluccia se vuoi) a trarre ispirazione, ma purtroppo anche l’unica loro formazione, dal consenso registrato su Repubblica. Fino a, di fatto, concordare una presidenza Rai, Galimberti, e poi due consiglieri, quelli del Pd di Bersani, di grande prestigio, con Colombo e Tobagi ma onestamente politicamente poco incidenti nel governo di un grande luogo di senso comune della nostra società civile e politica quale la Rai.
E che dire del cedimento al “colore”, una volta dominio di Tornabuoni e Pansa e quasi collaterale, ora divenuto il luogo principe della politica : il cane di Buttiglione, le autoreggenti della Brambilla, i risotti di D’Alema, le sciate di Prodi, non nate a Repubblicama utilizzate per altre scorciatoie di colore rispetto al lavoro politico serio che molti parlamentari di qualunque ideologia hanno continuato a fare per il Paese (mentre altri distruggevano l’immagine della politica sia chiaro… non giustifico assolutamente, anzi).
Nel tempo ogni leader Pd ha ritenuto di guardarsi nello specchio de la Repubblica e con esso misurare i parametri delle proprie scelte depauperando (colpa loro certo ) il partito di uffici e dipartimenti di studio, sostituendo conferenze stampa a tre giorni di riflessioni, immaginando che le battaglie per i diritti civili fossero senza costi, senza riflessione, senza substrato culturale.
Voglio dirti che questo esalta e non diminuisce il ruolo del tuo-mio giornale ma nello stesso tempo misura anche una delle perdite culturali e metodologiche del partito che ho contribuito a fondare per allargare l’Ulivo e parlare al Paese e pure agli avversari.
A seguire l’obbligo di parlare solo di temi semplici e non difficili da perseguire: la pace no perché non è nelle nostre mani (ma sta nella Costituzione), le carceri no perché la rieducazione non fa notizia (ma sta nella Costituzione), il disagio sociale no, perché tanto se lo ascrive la destra (ma poi vinciamo ai Parioli o in centro a Milano e a Lorenteggio o Torbella Monaca non sanno più cos’è la politica e c’è il degrado delle relazioni sociali in cui s’incunea la destra lepenista di Casapound e di Salvini).
La Repubblica ha forgiato e poi abbandonato leader e leaderini come la sinistra in genere: damnatio memoriae per Blair, Zapatero o Tsipras, spazio ai convegni da un giorno di meteore che non cito perché il mio pensiero è ragionare, anche con loro, non espellerli. Vengo da una storia politica in cui chi mi è vicino èalleato, non il primo avversario.
Insomma caro Mario, è chiaro che un giornale è un giornale e non deve fare il partito politico e un partito politico dovrebbe avere una spina dorsale.
Ma quando le classi dirigenti si confondono e la lotta per essere direzione strategica confonde gli spazi che peraltro coincidono col “lettorato” del giornale c’è bisogno di un passo indietro rispettoso e fatto anche di gentilezza umana per ripartire.
Il tuo editoriale è giusto e lo apprezzo come lettore del “mio” giornale e non necessariamente deve essere una linea di partito (o almeno per esserlo deve avere la maggioranza nel partito non sui social o sulla stampa).
Un partito deve avere una sua linea e ne deve essere convinto al termine di un percorso democratico fatto di analisi vere e non interviste ai giornali o di ritagli stampa.
Io continuerò ad amare e leggere criticamente il mio giornale.
E proverò a smuovere criticamente il mio partito.
Sperando che entrambi tornino a parlare a tutta il Paese e non solamente alla mia generazione o al mio ceto sociale.
Un abbraccio affettuoso dal tuo lettore
Roberto Di Giovan Paolo

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